LA CORTE DI APPELLO Ha pronunciato la seguente ordinanza nel processo di cui a margine. Letti gli atti relativi all'appello proposto dal P.M. di Trento avverso la sentenza del 25 gennaio 2006 con cui il G.u.p. del Tribunale di Trento assolveva Muilaliu Dritan dal reato di falsa testimonianza perche' il fatto non sussiste; O s s e r v a Nelle more del giudizio e' entrata in vigore la legge 20 febbraio 2006, n. 46, il cui articolo 1, comma 2 ha riformulato l'art. 593 c.p.p. stabilendo che il p.m. puo' appellare contro le sentenze di proscioglimento nella sola ipotesi che dopo il giudizio di primo grado sopravvengano o siano scoperte nuove prove aventi il requisito della decisivita', ed il cui art. 10, comma 2, stabilisce che l'appello proposto dal p.m. contro la sentenza di proscioglimento prima dell'entrata in vigore della legge dev'essere dichiarato inammissibile. La novella, limitando la facolta' di appello alla sola ipotesi marginale e di rarissima verificazione teste' specificata, ha praticamente soppresso il potere del p.m. di appellare contro le sentenze di proscioglimento. Ritiene peraltro la Corte che le anzidette disposizioni della nuova legge creino una evidente disparita' di trattamento tra p.m. e imputato, laddove si nega soltanto al primo la possibilita' di chiedere un controllo di merito sulla decisione difforme dalle proprie aspettative, e che tale asimmetria tra accusa e difesa sembri travalicare i limiti fissati dal secondo comma dell'art. 111 della Costituzione, a norma del quale «ogni processo si svolge nel contraddittorio delle parti, in condizioni di parita». L'appello nasce storicamente e si giustifica giuridicamente come rimedio per correggere nel merito l'erronea decisione del giudice. Il giudice puo' sbagliare con pari probabilita' sia condannando l'innocente che assolvendo il colpevole, e l'interesse pubblico alla punizione del reo e' meritevole di tutela tanto quanto l'interesse dell'imputato all'affermazione della propria innocenza. Appare pertanto indubitabile che una disciplina che preveda un contraddittorio dimidiato - in cui l'imputato soccombente puo' appellare, mentre il pubblico accusatore non puo' farlo, con la conseguenza che gli eventuali errori di fatto, in caso di assoluzione, diventano irrimediabili - istituisca un'irragionevole disuguaglianza fra le parti necessarie del processo penale. E' noto che la Corte costituzionale con piu' decisioni (sentenza n. 363/1991 e ordinanze successive, tra cui la n. 421/2001) ha affermato che il limite all'appello del pubblico ministero nel giudizio abbreviato stabilito dall'art. 443 c.p.p.( inappellabilita' delle sentenze di condanna che non modificano il titolo del reato) non contrasta con i canoni di ragionevolezza e non viola il principio della parita' delle parti sia perche' costituisce il «corrispettivo» in funzione premiale (unitamente alla riduzione della pena) della rinunzia al dibattimento da parte dell'imputato attraverso un'opzione processuale che favorisce una piu' rapida definizione dei processi, sia perche' in presenza di una sentenza di condanna comunque il pubblico ministero ha realizzato la pretesa punitiva fatta valere nel processo, rimanendo peraltro intatta la facolta' di impugnazione delle sentenze di assoluzione e delle sentenze di condanna che modificano il titolo del reato pronunziate nel giudizio abbreviato. Le ragioni giustificative dei limiti, peraltro contenuti, alla facolta' di appello del pubblico ministero nel giudizio abbreviato, ritenute valide dalla Corte costituzionale, sono pero' totalmente inesistenti nella nuova formulazione dell'art. 593 c.p.p. che disciplina l'appello in generale. La drastica limitazione della facolta' di appellare le sentenze di assoluzione per il pubblico ministero, comparabile nella sostanza ad un divieto totale di appello, costituisce una radicale mutilazione delle facolta' processuali della parte pubblica, facolta' che invece permangono sostanzialmente integre per l'imputato, che non ha interesse ad appellare le sentenze di assoluzione e conserva piena facolta' di appellare le sentenze di condanna. A tale pesante disparita' di trattamento tra la parte pubblica e l'imputato non corrisponde alcuna «contropartita» sul piano processuale o sostanziale che giustifichi il diverso trattamento ed escluda il carattere discriminatorio della disposizione. Si ritiene pertanto non manifestamente infondata la questione di legittimita' delle sopracitate disposizioni di legge per contrasto con l'art. 111, secondo comma della Costituzione. Si ritiene altresi' che la questione sia rilevante perche' dalla sua soluzione dipende la decisione di questa Corte di esaminare nel merito l'appello del p.m. o di dichiararlo inammissibile.